FELICE GIMONDI AL R.C. CAIROLI
«Quando la strada sale/ non ti voltare/ sai che ci sarò…». Non è solo la chiave di lettura di un duello fantastico, in bicicletta, contenuta nella splendida canzone di Enrico Ruggeri “Gimondi e il Cannibale”, ma anche una metafora: un avversario, una situazione della vita che ti mette in difficoltà, ma che ti stimola a fare meglio e superarti. Una filosofia di vita che è stata propria del Campione, quel Felice Gimondi che ha fatto impazzire le folle, che ha fatto innamorare milioni di italiani, incollandoli davanti alla televisione a vedere le sue imprese. Quel duello con il Cannibale Eddie Merckx, il belga bionico, che ha caratterizzato la storia del ciclismo negli anni Sessanta e Settanta. Pagine di storia, di imprese epiche che giovedì 22 ottobre - nel corso del meeting del Rotary Club Cairoli presieduto da Matteo Loria, svoltosi al ristorante “Da Carla” - sono state rivissute con il grande protagonista di quei giorni: Felice Gimondi.
Un personaggio che ti affascina e ti cattura ancora oggi per la sua semplicità, modestia, onestà. Al punto da riconoscere che «Eddie era il più forte, anche se qualche volta è finito dietro...». Già quel duello, iniziato quando Gimondi, dopo il primo contratto professionistico all’inizio degli anni Sessanta - «due milioni all’anno, venivo pagato 200 mila lire per dieci mesi» - ed un terzo posto all’esordio al Giro d’Italia, rinnova con la sua squadra, la Salvarani. «Da due a cinque milioni di ingaggio all’anno. Ero contento, ma non immaginavo che da lì a pochi mesi avrei vinto il Tour...» E forse i soldi potevano essere maggiori.
“Felix de Monde”, come lo chiamava Brera, il nuovo idolo, il nuovo campione del ciclismo italiano. Ma ecco, all’improvviso, spuntare sulla sua strada il belga bionico. «Era semplicemente straordinario. Lui era in forma dal primo gennaio al 31 dicembre. Mi ha costretto a modificare il mio modo di correre: prima era basato sulla forza fisica, la potenza, con lui davanti, come avversario, sono stato costretto a “studiarlo”, a cercare di capire e anticipare ogni sua mossa. Se ad Eddie lasciavi 200 metri, non lo prendevi più. Oggi vedi le corse, anche quella per il Mondiale, che vengono risolte a pochi chilometri dal traguardo, le crono ad uno-due giri. Quando c’era Merckx scattava 100 chilometri prima dell’arrivo. E se non ti mettevi a ruota lo salutavi». Ma anche il fenomeno aveva dei limiti. Come quella volta durante una salita al Tour, gruppo di testa formato da cinque corridori e, ovviamente, Felice ed Eddie. «Ero al chiodo, non ce la facevo più, quando Eddie chiama il suo gregario, un urlo per imporgli di rallentare. Meno male, era pure lui al chiodo...».
Nemici durante le corse, amici nella vita. «Al termine delle tappe, quando riuscivamo, scappavamo dall’albergo e ci trovavamo nel bar del paese dove si era fermata la carovana per berci mezza coca-cola a testa con un po’ di whisky». Poi, il giorno dopo, di nuovo l’uno contro l’altro. «Tra me ed Eddie, se c’era un corridore, significava che c’era una persona di troppo. Bastava vedere le distanze tra le nostre ruote, ci passavano quattro dita. E nessuno voleva mollare perché sapeva che l’altro sarebbe scappato. Non lo dico per presunzione, ma se non ci fosse stato Eddie, qualche Tour in più l’avrei vinto». Come se nella sua vita, in vent’anni di carriera avesse vinto poco, titolo mondiale compreso. «Se non ci fosse stato Eddie...». Una refrain che ripete anche quando gli fanno i complimenti per il suo fisico, per nulla modificato dal tempo. Ride, Gimondi. «Sì, la carrozzeria è ancora buona, ma è il motore che ormai è distrutto. Qualche anno fa ho avuto anche problemi al cuore. Quando ho rivisto Eddie gli ho detto “è tutta colpa tua, tiravi come un pazzo e io per starti a ruota mi sono distrutto”».
Ma lo scatto, quello dei tempi migliori, arriva quando si parla del ciclismo di oggi, che dalle pagine sportive è passato su quelle di cronaca nera e giudiziaria per le note vicende doping. «C’è sempre stato qualcosa. In modo diverso, ma c’era. Si lavora sugli stimolanti, per noi i parametri erano peso, pressione e polso. Se dopo due ore dalla fine della corsa vedevi che la pressione non scendeva, significava che non ce la facevi più. Oggi si lavora su ormoni, sui valori del sangue. Io ho saputo solo qualche anno fa di avere l’ematocrito...».
Oggi Gimondi non ha abbandonato la bicicletta - «ho rifiutato incarichi federali perché avevo un debito con mia moglie Tiziana conosciuta nell’albergo ad Alassio dove andavo in ritiro con la squadra e che per colpa mia ha lasciato la riviera ligure per venire a vivere in provincia di Bergamo. Una donna che ho abbandonato per quindici anni a casa, da sola, a crescere le mie due figlie visto che io ero in giro a correre» - ma non è più quella di strada, bensì la mountain-bike. Che lo vede alla guida di una scuola a Paladina, in provincia di Bergamo dove vive, ed è al vertice di un sodalizio, Tx Active Bianchi, che sta mietendo successi a livello internazionale. «Sarà questo il futuro del ciclismo, per problemi organizzativi visto che non devi bloccare per ore le strade, e soprattutto per gli allenamenti, che avvengono in circuiti chiusi, protetti, non sulle strade dove ti sfrecciano accanto le auto a 130 all’ora. Io stesso, dovessi scegliere tra la bici da corsa e la mountain bike, anche solo per una passeggiata, prendo la seconda».
La bici, la sua vita. Che racconta con gioia, con la felicità di aver cavalcato vent’anni di storia del ciclismo internazionale. Di aver scritto quelle pagine che oggi sono leggenda. «Potessi tornare indietro... non farei di certo l’assicuratore come sto facendo oggi».
«... e quanta strada che verrà/ ma non mi avrai/ io non mi staccherò...».
Mario Pacali